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Galleria Il Parco ha risposto picche, non si può

enza 3Insomma, le mie foto non valgono nulla speriamo che non li veda circolare come ha fatto il fratello di qualcuna.

PER CORTESIA LEGGETE TUTTO, NOI DI LIBERISSIMO FACCIAMO DA GARANTI.
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Iban: IT24Z0326804604052178138350
ECCO COSA SERVIREBBE E IL COSTO APPROSSIMATIVO.
1 frigorifero 500lt per alimenti 1900 €
1 frigorifero 500lt per medicinali 1900 €
1 surgelatore 500lt per alimenti 1900 €
trasporto frigoriferi da Lagos 500 €
1 generatore 6KW 2700 €
trasporto generatore da Lagos 300 €
1 impianto fotovoltaico per 6Kw 12.000 €
2 condizionatori 15000Btu bi split 800 €
trasporto condizionatori da Lagos 200 €

Totale: 22.200 €
La nostra amica Enza, che si trova li con altre otto novizie, mi dice che i pannelli fotovoltaici che trova sulla piazza nigeriana, sono di produzione cinese, durano poco e costano molto. Un impianto da 6Kw acquistato lì costa circa 9500€. Ho cercato una quotazione immaginando acquisto e posa in esercizio qui in Italia e ho trovato 12.000€.
La suora però è in contatto con persone in America che lo spedirebbero da lì, ma le servono i soldi per pagarlo.

INFORMAZIONI VARIE DELL’AMICO FERDINANDO MARCOCCI, RACCOLTE DURANTE IL SUO VIAGGIO.
Igbedor Island è un’isola del Niger tra le città di Onitsha e Asaba che non compare sulle mappe essendo ogni anno sommersa dalla piena del Niger una o due volte. Di conseguenza la sua forma cambia per via dei detriti che il fiume accumula o sottrae con le sue correnti.enza 2
Nella mappa che ti allego è quel quadratino nero più o meno al centro dell’immagine. Non riesco a trovare la foto originale che scaricai da Google Earth, comunque le coordinate te le ho scritte sopra.
Io sono arrivato da Enugu (io), ma si può raggiungere Igbedor Island da Lagos, come da Port Hacourt. Le strade sono sempre le stesse, stessa qualità, corrispondente alle nostre Strade Comunali, spesso anche peggio, sconnesse, piene di buche, sterrate.
Lungo la strada che ho percorso io, l’unica opera di un certo impegno e ingegnerizzazione, è il ponte sul Niger: il Niger Bridge, tutto in tralicci d’acciaio. La velocità media lungo le strade nigeriane (tutte) non supera i 40Km/h, per via dello stato disastrato.
Comunque, da Enugu città (Capitale dello Stato di Enugu), mi sono diretto verso Sud Ovest nello stato di Anambra, verso la città di Onitsha, dove ho conosciuto Enza che era venuta ad aspettarci. Insieme alla sua guida abbiamo proseguito in macchina, in mezzo alla foresta, per un centro abitato minore che si chiama Asaba, dove c’è l’imbarco per traversare il Niger (50 minuti di navigazione). Tra strade, foresta e navigazione, da Enugu a Igbedor Island, abbiamo impiegato circa 5 ore all’andata e altrettante al ritorno. Se da Igbedor Island è necessario trasportare qualcuno in ospedale, il più vicino è ad Onitsha. Siccome l’imbarco e lo sbarco dalle barchette ad Asaba è molto scomodo, il malato viene portato ad Onitsha via fiume ed occorrono circa 5 ore di navigazione.Ti allego altre immagini, migliori, tratte da Google Earth che ti danno l’idea dell’isolamento e della posizione di Enugu, Onitsha, Asaba e Igbedor Island. Ti allego anche il mio racconto di quella giornata, non so se lo hai già letto. E’ un file molto pesante perché contiene, oltre al racconto, molte fotografie mie e/o di Enza, che puoi utilizzare liberamente. NESSUNA è protetta da Copyright o simili. Ho scelto di mandartelo in Word così se ti fa comodo puoi fare copia-incolla. Dimmi se vuoi che ti mandi le foto in formato originale, ne ho molte altre.
enza ok
RELAZIONE DELL’AMICO Ferdinando Marcocci, Architetto, CHE MOLTI NOSTRI CONCITTADINI CONOSCONO.
ferdinando.marcocci@gmail.com

E’ Domenica 10 Novembre, ormai tredici giorni fa.
Ma potrebbe essere un giorno qualunque.
Qui da noi imperversa ancora una strana e prolungatissima estate, che promette male e alla fine si scatena nella tragedia di qualche giorno fa in Sardegna e di questi giorni in Calabria.
In Nigeria è primavera, non ho ancora capito se appena iniziata o già inoltrata. Ma è caldissima, umida, polverosa e densa di mille odori forti che ti distraggono, a volte ti chiudono la gola e ti impediscono di inspirare completamente. Odori che nessun documentario o reportage fotografico potrà mai documentare.
Il nostro albergo, dopo due permanenze l’ho capito, fa quel che può per rendere a noi occidentali, ragionevolmente piacevole e riposante la permanenza notturna, si, perché davvero solo di notte si sta in albergo. Si rientra, spesso, molto tardi e prima di andare a dormire, la “bonifica” in camera è d’obbligo. Blatte grosse come datteri prendono possesso, durante il giorno, dei meandri più bui tra i pezzi d’arredo.
Nei dieci/dodici/quindici giorni di missione sul territorio Nigeriano, si cerca di “muovere il mondo”, tanti sono gli incontri in programma. Un territorio tanto vasto e vie di comunicazione così improbabili, che duecento chilometri diventano quattro ore di viaggio, otto tra andata e ritorno.logo enzaferdi
E anche qui, come in albergo, noi occidentali siamo più fortunati e meglio trattati, ci spostiamo con due Hummer: un H2 e un H3, troppo vistose, troppo appariscenti, troppo “chiassose”, per i miei gusti deformati dalle regole della Sicurezza.
I nigeriani gli stessi spostamenti li fanno con pulmini gialli per il trasporto pubblico, stracolmi di gente e di bagagli, tempi di spostamento biblici, coincidenze improponibili e l’eternamente presente Godot che non fa altro che lasciarsi aspettare. I Nigeriani, dal canto loro, tutti, nella rappresentazione teatrale dell’”Aspettando Godot”, fanno la parte dei due barboni che aspettano, aspettano, aspettano, s’interrogano, aspettano, introspettivi aspettano… Sempre.
Loro, nei pulmini gialli, senza l’aria condizionata. Noi, nelle Hummer, con l’aria condizionata.
Anche se la velocità non è e non potrebbe essere elevata, i colori si susseguono così velocemente, in relazione al loro essere tanto intensi, che dopo poche decine di chilometri ti senti già ubriaco, gli occhi e la mente già saturi di quella lunga tenda colorata che ti scorre fuori dai finestrini, di quella gente colorata anch’essa che cammina per le strade, ovunque, dentro e fuori città, di quei bambini che, con le ceste sulla testa, tentano di venderti qualsiasi cosa dai finestrini, proprio lì dove le buche sull’asfalto ti impongono di rallentare, quasi di fermarti.
Il nostro autista, anche “uomo della scorta” a modo suo, si comporta come l’albergo e fa di tutto per allontanarci da quelli che, secondo lui, potrebbero rappresentare per noi un “fastidio”, se non un’improbabile “minaccia”, e corre via strombazzando, perché quei bambini si spostino, perché i pulmini gialli gli cedano il passo, perché le tende colorate fuggano più velocemente possibile indietro, perché si lascino dimenticare da noi, occidentali, abituati a strade migliori, a traffico più civile, a gente ben vestita, a marciapiedi asfaltati, non polverosi, a negozi, non banchetti per la strada, abituati a immaginare i nostri bambini a scuola e non sui cigli delle strade a vendere di tutto dalle loro ceste sulla testa.Igbedor Island
Il nostro autista è un nigeriano, di quelle persone che, se non ci fossero, bisognerebbe inventare. Ha vissuto in Italia, conosce l’Italia, parla un italiano più che accettabile ed ha una sola preoccupazione: noi.
Forse si vergogna un po’ del confronto che, crede, sia per noi inevitabile fare. Forse anche per questo “scappa” via, strombazzando prepotente, in un traffico rassegnato al suo essere, fatalmente, così caotico.
E’ però il 10 Novembre, non un giorno qualunque.
Tre ore di viaggio del nostro “circo” occidentale di visi pallidi, dallo Stato di Enugu (città di Enugu) allo Stato di Anambra, sul Niger (città di Onitsha e Asaba).
Il punto più ingegneristicamente avanzato di tutto il viaggio è il ponte sul Niger, il Niger Bridge, sulla A232. Per il resto case basse e sparse, baracche, foresta, traffico, buche, case basse e sparse, baracche, foresta, traffico, buche… non necessariamente in quest’ordine.
Un gran bel ponte in acciaio, una bella collezione di tralicci (messi lì da una qualche divinità fantascientifica, perché prima e dopo del ponte…) che si lascia attraversare in fretta.
Forse un po’ datato nel dimensionamento, perché oggi il traffico dei trasporti gommati, in questa zona, in prossimità del Delta del Niger e del principale porto commerciale della Nigeria, Port Harcourt, comincia ad essere frenetico e caotico.
La destinazione del viaggio, passata Onitsha e il suo spettacolare ponte, è Asaba. Un gruppetto di case vicino ad uno scivolo fangoso che rappresenta il “molo” dei traghetti per le isole del Niger.
E’ ad Asaba che incontriamo Suor Enza Guccione. Per questo il 10 Novembre non è un giorno qualunque.
E’ venuta a prenderci alla pompa di benzina Total dell’appuntamento concordato, con la sua guida fidata che vive ad Onitsha. Ha attraversato il Niger per venirci incontro, perché temeva che ci
perdessimo tra Asaba e l’imbarcadero per Igbedor Island… in mezzo alla foresta…
E’ una donnina minuta, piccola piccola, con due occhioni grandi dietro le lenti degli occhiali. Una vestaglietta leggera e colorata con le tasche piene, il velo del suo Ordine sulla testa. La pelle del volto tesa e lucente, non cicciotella, giovanile. Le manine piccole ma forti, una stretta di mano di quelle che si ricordano. Vitale, energica, consapevole di tempi, logistica, situazione e necessità (nostre). Eppure accogliente, sorridente, sinceramente felice di conoscerci, calda e premurosa.
Dal luogo dell’appuntamento, lì alla pompa Total, con una mezz’ora di macchina, in mezzo alla foresta e ai villaggi lungo il Niger, su strade così “africanamente rosse di terra compatta e finissima polvere”, raggiungiamo il “molo” d’imbarco: uno scivolo fangoso ormai adattato dall’uso e dalla consuetudine, ricavato in una leggera insenatura della riva destra del Niger, dove barchette lunghe 4/5 metri a chiglia tonda, dondolano una accanto all’altra, sfregandosi a vicenda, in attesa di qualcuno che abbia necessità di passare dall’altra parte, o di raggiungere una delle tante isole che appaiono e scompaiono, a seconda delle maree, delle piene e della corrente.
Una puzza di mangrovie in decomposizione nauseante, come quella che sentivo alle Keys, in Florida… che strano, la natura dona le stesse puzze ai ricchi come ai poveri, in punti così diversi e lontani del mondo… la natura sa il fatto suo. Mi torna in mente Totò e la sua “’a Livella”…
Lo scivolo fangoso è, guarda caso, scivoloso.
Qualcuno dei motori o dei serbatoi delle barchette ha una perdita, perché l’odore di benzina si mescola a quello delle mangrovie ed è un tripudio di emozioni…
Le macchine restano lì, prima del molo, parcheggiate dove le ruote non possono più andare oltre.
Il nostro drappello s’imbarca tra la curiosità di pochi casuali spettatori.
Pochi “piedi marini” tra di noi e l’esperienza dei diversi “Caronte” torna utile per farci prendere posto senza far danni, in mezzo a pezzi di motore e ricambi d’ogni tipo, poggiati in coperta, sul pavimento, fra i piedi. Un odore di benzina da “vietato fumare”.
Il nostro insostituibile autista/guida/scorta, non ci ha detto ancora niente. Da vero uomo stringe i denti e non fa un fiato, un lamento, una contrarietà, neppure piccola. Non gli viene in mente di dire “… ma io che vengo a fare… vi aspetto qui…”.
C’è una fraschetta, lì. Un nigeriano, come lui è, non avrebbe problemi a rimediarsi una sedia, un tavolo, un piatto di Suja (carne di capra piccantissima e gustosissima) e qualche birra gelata, eppure… la sua missione è stare con noi, fino alla fine, ovunque, per badare a noi, per prendersi cura di noi, fedele come un S. Bernardo!
Solo a sera, al ritorno alle auto, confessa: non sa nuotare, non è mai stato in barca, non è mai stato al
mare, non ha mai fatto un bagno in acque libere e ha trascorso il giorno precedente con la preoccupazione per quell’escursione a Igbedor Island e il terrore delle traversate. Non ha fatto un fiato… Mitico!
Igbedor Island, Missione di Suor Enza, in una Comunità, censita qualche anno fa, di circa ottomila persone, delle quali, all’epoca del censimento, cinquemila bambini sotto i dodici anni. I bambini, dall’epoca del censimento, saranno pure cresciuti, ma molti altri ne sono nati e di questi ultimi, i più deboli, anche morti. Di fame, di malaria, di tifo e di colera due volte l’anno. Perché lì il colera scoppia due volte l’anno. La dissenteria, invece, non dà mai tregua e dècima i bambini che continuano a mettere le mani in bocca, giocando in mezzo a liquami di tutti i generi, a cielo aperto, e a giocare e lavarsi nel Niger, nei punti dove l’acqua è calma e bassa, stagnante e putrida, mangiando quello che possono, per lo più nutrizionalmente povero, cucinato in luoghi e con utensili
da cucina, in condizioni igieniche disastrose.
Dall’imbarco all’Isola, un’altra mezz’ora controcorrente. Le sponde lontane. Impossibile capire dalla barca se sono le sponde del Niger o le rive di una delle decine di isolette. Rive basse, giallo rossiccio di sabbia argillosa, qualche canneto qua e là e tanti, tantissimi ciuffi di mangrovie. Anche in acqua, isolette galleggianti trascinate dalla corrente, di rami di mangrovie, quasi tutte con un fiore
nel mezzo.
Caronte sa che non è il caso di scontrarsi con quelle isolette galleggianti. Il motore è prezioso, l’elica pure e quelle isolette, sott’acqua, hanno radici acquatiche robuste che si impiglierebbero nell’elica, danneggiandola.
Qualche barca di pescatori dalla quale ci salutano e una con un grosso carico sistemato nel mezzo. Da quella, però, non ci saluta nessuno.
A sera, al ritorno, allo sbarco in terraferma, scopriremo che trasportava una salma chiusa nella bara.
Non c’era allegria in quella barchetta e noi eravamo troppo lontani e troppo occidentali per accorgercene, continuando a sbracciarci per farci notare, come non fossimo abbastanza evidenti, così bianchi e così vacanzieri.
Dalle sponde segnate dalla corrente e dalle maree, scavate a strisce orizzontali in quella concrezione di sabbia compattata, qua e la, dove la vegetazione ha attecchito ed è un po’ più fitta, gruppetti di donne a lavare i panni, nel Niger, qualche contadino curioso del nostro passaggio e più avanti due ragazze. Una imbarazzata, è svestita, si sta lavando. Si gira di spalle per nascondere i seni ma non perde l’occasione per voltare di nuovo la testa e alzare un braccio per salutarci. Qui di bianchi se ne vedono davvero pochi, per lo più di passaggio, per andare alla Missione di Suor Enza.
In molti sono andati a conoscerla, alcuni sono rimasti in contatto, in tanti hanno preferito voltarsi e l’hanno dimenticata, lei è rimasta, nonostante le difficoltà, nonostante l’abbandono della sua Congregazione che si sentiva impreparata, tutta, a quel genere di Missione. Lei è rimasta lì, fiduciosa nella Provvidenza e nell’amicizia controllata del suo Vescovo che, come tutti quelli che detengono un potere, deve dare “un colpo al cerchio e uno alla botte”, per non scontentare nessuno. E’ rimasta lì, nonostante l’isolamento arrivato improvviso, nel giro di poche ore, da Roma addirittura, inaspettato. Racconta di essere rimasta paralizzata quando è venuta a sapere che i suoi trent’anni di Convento, in un attimo, erano diventati fumo, aria, inconsistenti, dopo che aveva osato porsi, con la sua decisione di rimanere, anche da sola, contro la Congregazione…
La sua gente è festosa all’arrivo e una nuvola di ragazzini ci circonda in un attimo, appena messi i piedi a terra. Mezzi nudi, scalzi e vocianti, eccitati dalla novità, ci accompagnano in quei dieci minuti di sentiero che ci separano dal villaggio principale. Corrono avanti e indietro e mentre noi percorriamo a passo normale quelle poche centinaia di metri, loro percorrono, correndo, almeno il quadruplo della distanza, tra l’andare avanti e indietro, sorpassarci e tornare, prenderci per mano e strattonarci, solo per toccarle, le nostre mani bianche e così strane.
Uno scugnizzetto di 9/10 anni, nero nero, i denti bianchissimi, in mostra come fossero sessantaquattro, con i pantaloncini logori ma ancora rossi e i piedini nudi, come tutti gli altri, mi prende la mano destra e comincia a tirarmi e a torcermi le dita mentre mi parla in un inglese inventato che dell’inglese ha solo qualche riferimento fonetico ma non il senso, mi prende in giro.
Lo capisco al volo e comincio a prenderlo in giro anch’io, con un inglese altrettanto inventato e rapido, più rapido di quando parlo inglese, dando un senso a quello che dico. Ne nasce un dialogo parlato in una lingua sconosciuta, a entrambi, ma fatto di suoni “british”, di occhiate, di strattoni, di allusioni al cammino sul sentiero, di strattoni alle mie dita e buffetti dietro la sua nuca. Alla fine scoppia a ridere con quei due giri di perle in evidenza, forse ha capito che anch’io lo prendo in giro, o forse no. Forse è solo soddisfatto per aver “parlato” con me.
Il vociare allegro ci accompagna fino al “grande ponte”, quello su una diramazione minore del Niger, poco più di un ruscello in secca e stagnante, il 10 Novembre, ma fiume impetuoso durante le grandi piogge, impetuoso fino a sommergere l’isola e pure il ponte…
“Lo hanno fatto tutto loro, da soli” ci dice con orgoglio Suor Enza.
“Loro” sono gli uomini validi della sua Comunità.
Un ponte costituito da tre solette di calcestruzzo: due inclinate verso le sponde, una orizzontale nel mezzo, due piloni sotto le giunzioni delle solette e due parapetti di tubi di ferro saldati alla meglio e fissati alle solette in maniera “eterna”, prima di gettare il calcestruzzo.
Un’opera “monumentale” se si considerano i poveri mezzi, le competenze limitate ma efficaci, le difficoltà di trasporto di tutte quelle tonnellate di cemento e ferro attraverso il Niger e la mancanza di una pur piccola molazza, che, se anche ci fosse, non avrebbe la corrente trifase per funzionare. Nemmeno la monofase…
Tutto quel calcestruzzo impastato a mano con acqua sporca del Niger e gettato in casseforme fatte alla meglio, d’estate, quando il fiume è in secca, il sole picchia e l’umidità è impietosa, mostrano la volontà immensa, il sacrificio indescrivibile, il sudore, le schiene rotte e le braccia dolenti di sconosciuti uomini scalzi, agli occhi di chi, come me, è abituato a grandi e sofisticati cantieri con “la puzza sotto il naso”, dalle mille norme di sicurezza e dagli appalti pilotati da corrotti e corruttori, ingrassati a dismisura mentre, altrove, lì, manca anche l’elementare.
Suor Enza è orgogliosa di quel ponte che segna l’ingresso al villaggio principale della sua grande Comunità.
Dopo quel ponte il sentiero si ramifica, serve le prime capanne, si inoltra in un abitato basso a un solo piano fatto di capannette con i muri di bambù e fango, coperte di paglia e lamiere, le stesse capannette che quando il Niger straripa, senza più misura, si sciolgono dalle fondamenta improvvisate e si piegano su un lato sotto il peso della paglia bagnata. Ogni anno la stessa cosa e ogni anno si ricomincia daccapo.
Il Niger porta via tutto, fuorché la voglia di rimanere in quella sua Igbedor Island, di Suor Enza. Due giorni fa, in un messaggio via Facebook mi scrive di essersi accorta, il giorno prima, di aver contratto Tifo e Malaria. Ne scrive come di un raffreddore e di un mal di gola. Come di mali di stagione, normali da quelle parti. E non è la prima volta.
Io, bianco come lei, ma pedissequamente rispettoso delle prescrizioni mediche di questo nostro “benestante” Paese, prima di partire per la Nigeria per la prima volta, mi sono inoculato otto vaccini. Sono diventato quasi “antiproiettile”.
Eppure, il 10 Novembre, passato il “grande ponte”, mentre attraverso il villaggio tra canali di scolo putridi e puzzolenti e “assorbo” con avidità quello che scrivo, mi avvicino a Suor Enza con imbarazzo, non tanto per la mia necessità, quanto perché alla mia necessità corrisponde il suo dover trovare una soluzione, in una condizione lontana anni luce, da ciò che lei sa essere una normalità igienica occidentale, che lì non esiste.
La mia diarrea (del viaggiatore, non virale) è una necessità impellente, ma la mia preoccupazione è che lei non si senta in dovere di offrirmi chissà quale toilette per il mio “regal culone”.
Accoglie in casa sua tutto il nostro drappello. Onori di casa e convenevoli, la presentazione delle sue Novizie, e l’evidenza che è stato organizzato tutto per la nostra visita, con attenzione, cura e qualche spesa.
Una casa piccola, al primo piano di una delle poche costruzioni in muratura del villaggio. Una casa pulita e dignitosa nella sua essenzialità, nella quale convive con otto sue Consorelle e con la mamma di un sacerdote, trasferitosi in America lasciando la casa a loro disposizione.
Di quella casa, in particolare dell’alloggio di Suor Enza, visito prima la toilette che il soggiorno, con immensa gratitudine, passando per la sua camera da letto.
Il mio deviare di itinerario, certamente fuori protocollo, determina l’occupazione di tutti i posti disponibili nel soggiorno e, al mio arrivo, rimane una sola poltrona, in un angolo, un po’ insaccata nella disposizione generale delle suppellettili.
Proprio il posto che fa per me, che non amo le turbolenze, la rumorosità, i “circhi”.
Se si vuol fare, si faccia: in silenzio, con efficacia, efficienza, senza troppa pubblicità, così che la “sinistra” non sappia cosa fa la “destra”.
Un pranzo semplice ma fin troppo abbondante, sicuramente più del loro solito, nel corso del quale approfitto del solo riso in bianco, con gusto, in verità, perché amo il riso, ma anche un po’ di invidia nei confronti degli altri che, in ottima salute, assaggiano tutto. Anche quei succulenti micro wurstel nel sugo, che Suor Enza è riuscita a trovare chissà dove, per offrirci carne “confezionata”, certamente più sicura.
Nel corso del giro mattutino, subito dopo l’arrivo, in tempi ancora non inquinati dalla mia necessità fisiologica, visito finalmente dal vivo il cantiere della Scuola, il sogno di Suor Enza, che avevo già visto a Roma nelle foto e nei disegni che avevo ricevuto. I miei sospetti trovano giustificazione. Andrebbero demolite le fondazioni già realizzate e sarebbe il caso di ricominciare daccapo.
Non so come dirlo a Suor Enza e girellando nell’area di cantiere metto le mani sui blocchetti di cemento non ancora utilizzati. Si sfaldano a mano. Le fondazioni sono prive persino di un cordolo, e non c’è traccia di ferro da costruzione, molazza, cemento per fare calcestruzzo da getto… niente! Sui disegni avuti a Roma compare un fabbricato di due piani più copertura, oltre il piano terra. Un fabbricato pesantissimo perché so che in Nigeria, prassi e tradizione è di costruire solai in calcestruzzo pieno, senza alcun elemento di alleggerimento, lastre di cemento spesse 30/40cm estese quanto il fabbricato, una per piano!
Lungo il perimetro delle fondazioni sono stati piantati pochi tubetti di ferro che dovrebbero rappresentare i pilastri per le elevazioni, piantati nei blocchetti di cemento che si sgretolano a mano e che non sono nemmeno legati tra di loro, appoggiati sul fondo di uno scavo, nella sabbia argillosa che quando piove diventa “sapone vetrato”… non ci siamo! Proprio no.
Prometto a Suor Enza che non appena a Roma le disegnerò sostanziali modifiche al lavoro già fatto, in modo che non si debba buttar via tutto, ma che il “già fatto” diventi collaborante con il nuovo, da fare.
Nei giorni scorsi ho passato il mio tempo a preparare le modifiche di quelle fondazioni e le ho Inviate a Suor Enza, nell’auspicio che “l’Impresa” che eseguirà il lavoro, le tenga presenti. Ma Suor Enza, piccola piccola, è un “mastino” e sono sicuro che saprà farsi valere.

Tra le consuetudini doverose c’è la visita al “Re”. Il Capo Villaggio.
Un uomo sugli ottanta ci accoglie seduto in un soggiorno con due entrate contrapposte, a piano terra, con il pavimento di terra compatta. I suoi “fedelissimi” intorno a lui. Uno di loro si premura di farci da interprete e di illustrarci, anche fuori traduzione, la figura del Re.
Un uomo costantemente in pericolo, al punto che ha un “assaggiatore”. Quello che l’assaggiatore assaggia, se l’assaggiatore non muore (non muore mai), il Re lo versa in parte sul pavimento, in onore e rispetto degli antenati, che sotto il pavimento giacciono.
Mentre il primo fedelissimo ci spiega, un secondo scompare dietro una tenda e ricompare dopo un attimo. Tra le mani un cappello di panno rosso con due fori laterali. Lo sistema con cura sulla testa del Re, seduto di fronte a noi, e con altrettanta cura sistema nei fori laterali due lunghe piume bianche, due ali. Un parallelo tra il Re lì seduto e Thor della mitologia scandinava è inevitabile ma casuale, non c’è alcuna relazione culturale tra la Nigeria, anche antica, e i popoli del Nord Europa. Oltretutto il Re non ha il martello ma un bastone di legno nodoso, apparentemente più un ausilio a quei pochi passi che compie ancora ogni giorno, che un segno del comando.
Il Re è una figura essenziale nelle comunità rurali nigeriane. E’ lui che guida, decide, ammonisce, rappacifica, divide, distribuisce e destina risorse, stabilisce linee guida e di dettaglio. E non si discute! E’ proprio un Re! Di territori inconsistenti e comunità minuscole, ma è un vero e proprio Re! Massima, oltre che unica, Autorità riconosciuta in seno alla Comunità.
Quel Re ci ha accolti così cordialmente che ha voluto offrirci il frutto della Cola, intinto in un burro d’arachidi così buono, che nemmeno in America se ne trova. L’atto e la tradizione significano “intensamente auspicata concordia”: tra lui e noi, tra la sua Comunità e la nostra, auspicio da portare con noi al ritorno e da estendere alle nostre Famiglie e alle nostre Comunità, nella condivisione, nel rispetto e nella gratitudine nei confronti dei reciproci antenati. Insomma, Pace.
Una Pace grande, estesa, profonda, duratura.
Una piccola, breve, semplice ma intensa cerimonia, che sottolinea, mai ce ne fosse bisogno, la straordinaria capacità di accoglienza della gente nigeriana.
Le prime due parole che un nigeriano pronuncia, incontrando uno straniero, sono “Welcome, Sir”. La prima ce l’hanno proprio nell’anima, la seconda è un retaggio della colonizzazione Inglese, come la lingua in uso, ufficiale nel Paese, unica lingua che possa unire gli oltre trecento dialetti, derivanti da una cultura storicamente e tradizionalmente tribale.
Per andare a trovare il Re, abbiamo traversato il villaggio, incontrato donne con bambini, bambini da soli, bambini con bambini più piccoli per mano, ma pochi uomini: solo, più tardi, i fedelissimi del Re. Tutti gli uomini, ci spiega Suor Enza, sono in campagna, a lavorare per coltivare l’unico frutto che quella terra gli consente di coltivare, lo Yam. Un tubero enorme, un “patatone” lungo fino
a 70/80cm, unica fonte di reddito e sostentamento, insieme a qualche smagrito polletto che razzola tra i vicoli, in mezzo alle capanne, con le zampe e il becco tra i liquami e qualche magra capretta.
Gli uomini sono quelli che, durante la traversata di mezz’ora per raggiungere Igbedor Island, abbiamo visto affacciarsi tra le mangrovie, incuriositi dal nostro passaggio. Sono quelli che dopo la fatica della coltivazione e dell’estrazione dalla terra delle Yam, con altrettanta fatica, caricano il raccolto sulle barchette per andare in terraferma. Sono gli stessi che allo sbarco sulla sponda del Niger trasferiscono il loro raccolto su carretti, raramente a motore, e a piedi arrivano al mercato di Asaba, percorrendo quelle strade così “africanamente rosse di terra compatta e finissima polvere” che noi abbiamo percorso con le Hummer. Gli stessi che affollano il mercato, a volte con bambini al seguito con le ceste sulla testa, piene di Yam e gli stessi che a sera, percorso inverso, tornano al villaggio senza aver venduto una sola patata.

La vita a Igbedor Island scorre lenta, semplice, rassegnata. Scorre solo perché la vita ha un inizio e una fine, non perché, durante, ci sia altro da fare se non vederla scorrere, semplicemente. La rassegnazione deriva dalla condizione consapevole di non avere alcuna speranza di vedere la propria vita cambiare e migliorare, nel corso dell’esistenza di ciascuno. E da questa rassegnazione deriva l’abbandono dei bambini nati deformi, nel Niger. Dalla stessa rassegnazione deriva la malnutrizione dei bambini normali, con ernie ombelicali impressionanti, perché il nutrimento migliore deve andare agli uomini, che lavorano nei campi, per coltivare pesanti patate che una volta al mercato, spesso, non riescono nemmeno a vendere. Tra fatiche di trasferimento enormi. Dalla stessa rassegnazione deriva il gioco dei bambini tra i liquami e nelle acque stagnanti e putride delle
insenature del Niger e l’accettazione di ricostruire ogni anno le capanne che il Niger, impietosamente, scioglie dalle fondamenta.
In questo quadro sconfortante agli occhi di un occidentale, Suor Enza ha scelto di vivere, per amore e con amore, per la sua Comunità. Contro il Niger impietoso, contro la sua Congregazione impreparata a quel genere di Missione, contro tifo, colera, malaria, caldo, umidità e tanfi asfissianti.
Durante la traversata per raggiungere Igbedor Island il “drappello di bianchi” non sapeva ancora.
Entusiasta e allegro si comportava come un “gruppo vacanze” e rumoreggiava emozionato per l’esperienza esotica da vivere, consapevole solo delle immagini di tanti documentari passati in TV.
Durante la traversata di ritorno nel “drappello di bianchi” regna il silenzio. Ciascuno chiuso nei propri pensieri. Ciascuno sovrastato dall’aver visto, sentito, toccato, annusato, dal vivo. L’ultimo senso, il gusto, nella consapevolezza dei rischi, è stato messo a disposizione del solo pasto offerto dalle Suore a pranzo. Quei bambini il gusto lo usano tutti i giorni, in condizioni igieniche al di sotto di qualunque limite di accettabilità occidentale e, spesso, ne muoiono.
La nuvola di bambini che ci aveva accolti all’arrivo, ci ha accompagnati all’imbarco per il ritorno e, nell’attesa della barchetta, ci ha tenuto compagnia con i canti imparati dalle Suorine. I più ribelli si sono esibiti in arditi equilibrismi, appesi ad un albero.
In quell’immagine, tra le poche che ho scattato, per non mettere niente tra i miei occhi e la realtà, per non astrarmi con tecnicismi da quella realtà e per assorbirla tutta, ho visto “l’albero della vita con i grappoli appesi”.
E’ stato inevitabile e, anzi, naturale, lanciare “pugnetti di baci” a quelle Suorine circondate dalla nuvola di bambini rumoreggianti, quando la barchetta ha preso il largo.
Il silenzio durante il ritorno è “incontenibile”. All’arrivo sulla sponda opposta del Niger, la barchetta della mattina, quella con la salma chiusa nella bara, sottolinea, ce ne fosse bisogno, come sia complicato persino morire, a Igbedor Island.
Le uniche cose che a Suor Enza non mancano, sono Coraggio e Fede. Per il resto ha bisogno di tutto e le tasche della sua vestaglietta leggera e colorata, sono piene di solo conforto per la sua gente.

Lista in ordine di priorità (secondo Suor Enza, diversa da considerazioni di opportunità logistica):

Deve costruire una Scuola (perché i suoi bambini non siano costretti a seguire lezioni all’aperto e ad interromperle quando piove);
Deve costruire una Casa (la sua, perché adesso vivono nove sorelline in tre stanzette);
Corrente elettrica (lei si riferisce ad uno, due gruppetti elettrogeni di quelli da “ambulante”, a benzina. La comunità, però, ha bisogno di non meno di un gruppo di tipo industriale da 50 KVA, ovvero circa 40KW, a gasolio, tanto per far arrivare un cavo e una lampadina in ogni capanna della Comunità);
Acqua potabile (un potabilizzatore industriale per grandi comunità, perché l’acqua da bere è più spesso l’acqua del Niger che non l’acqua piovana. Con un potabilizzatore industriale risolverebbero in un solo colpo i problemi di igiene personale, intima e alimentare. Aspetti, al momento, DRAMMATICI!);
Connessione satellitare (un telefono satellitare che funzioni anche quando la rete cellulare “fluttua”, ovvero quasi sempre);
almeno un’imbarcazione tipo Boston Whaler 5/6m senza pilotina così da essere caricabile in coperta anche con carichi ingombranti: materiali edili, salme già in cassa (carichi troppo alti, questi, che sbilanciano le barchette a chiglia tonda che hanno già), alimenti, acqua, varie ed eventuali. Con possibilità di montare un tendalino sull’intera coperta perché le traversate sono lunghe, il sole picchia, gli alimenti si guastano, l’acqua bolle e le salme… Meglio sarebbe 2 Boston Whaler (o analoghe imbarcazioni a chiglia piatta)… e altrettanti motori. Lì usano dei 50Hp, mi pare, credo per questioni di navigabilità controcorrente quando il fiume è in piena…
In alternativa, o in aggiunta, molto meno pratica per gli spostamenti quotidiani verso il resto della Comunità, ma più utile per i carichi di provviste edili: una bella “bettolina”, una chiatta di 10m x 5m, pescaggio non più di 60/70cm a pieno carico, chiglia piatta e motore diesel, capace di contrastare la stessa corrente di cui sopra, quando il Niger è in piena.
Un apparato radio rice-trasmittente a onde medie e lunghe, di quelli “pro”, non un baracchino, insomma, che le permetta di essere autonoma sulle comunicazioni, anche internazionali, anche quando non c’è rete, campo, o i satelliti sono oscurati (facile che accada in zone militarizzate come la Nigeria), completo di antenna a dipolo, meglio se multiplo.
Un impianto fotovoltaico serio, con accumulatore capace, per le situazioni d’emergenza: gruppetti rotti (come adesso), esaurimento scorte di carburante (come qualche mese fa), ecc.
Un po’ di denaro “liquido” per ogni evenienza: scorte di carburante e varie, oltre che i fondi per pagare la costruzione di Scuola, Casa, rete elettrica (pali, cavi, isolatori, ecc.) per portare una lampadina in ogni casa.

E’ evidente quanto complicato sarebbe trasferire sull’Isola le reti elettrosaldate da costruzione con le barchette a chiglia tonda che hanno a disposizione adesso. Servirebbe prima, per lo meno, un Boston Whaler o analoga imbarcazione. In alternativa, con le barchette a disposizione, potrebbero trasferire sull’isola il ferro da costruzione in tondini e saldare le reti in cantiere. Ma la saldatrice, senza gruppo elettrogeno, non funziona. Pure funzionasse con un gruppetto da ambulante, non si potrebbe fare un buon calcestruzzo con una molazza, senza una corrente “vigorosa” trifase. Ma come trasportare dalla terraferma il Gruppo Elettrogeno in lista, prima dell’arrivo di una donazione per la “bettolina” e come potrebbe funzionare un depuratore industriale senza gruppo elettrogeno?
Questi sono tutti aspetti impossibili da gestire logisticamente, basandosi su donazioni.
Non è possibile prevedere le donazioni.
Ma chiunque legga, tenga presente che la loro è una condizione paragonabile, e forse peggiore, a quelle d’emergenza alle quali siamo abituati in Occidente. La differenza vera, però, è che mentre in Occidente le emergenze prima o poi passano, da loro no.
La loro è una condizione di emergenza tutti i giorni dell’anno, di tutti gli anni.

Se qualcuno, leggendo, scoprisse la voglia di aiutare Suor Enza, con poco o con molto, prenda con lei contatti diretti.
Se queste pagine fossero fatte girare, condivise, linkate, evidenziate, sarebbe già un grande aiuto.
Se qualcuno avesse contatti con eventuali sponsor interessati ad una o più donazioni, deducibili fiscalmente, in Italia o altrove, beh… farebbero comodo.
Se qualcuno avesse contatti commerciali con le compagnie marittime che operano a Port Arcourt, lì sarebbe facile trovare, a pochi soldi, una “bettolina” usata, magari rugginosa ma ancora valida per trasporti relativamente brevi lungo il Niger.
Niente di quello che serve può arrivare dall’Italia o, più in generale, dall’occidente, perché le spese di trasporto sarebbero devastanti per un bilancio, a oggi, inconsistente.

Certo, quella di Suor Enza non è l’unica situazione critica al mondo, ma io ho visto questa e questa vi ho raccontato.

I riferimenti di Suor Enza Guccione sono:

www.emmanuel-family-italia.org

info@emmanuel-family-italia.org

enza_guccione@yahoo.com

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